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Dott. Giancarlo Signorini
Senso di colpa, Forlì (FC) - San Mauro Pascoli (FC)

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A proposito di senso di colpa

Articolo pubblicato il 27 Gennaio 2014.
L'articolo "A proposito di senso di colpa" tratta di: Tipi di terapia e Psicoanalisi (Sigmund Freud).

La "colpa" viene definita come un «atto o comportamento che implica dannose conseguenze verso individui o la comunità» (Devoto Oli, 2000).
In ambito psicoanalitico non si parla di colpa ma di senso di colpa cioè dell'emozione che segue la violazione di un precetto o di una norma.

L'espressione "mi sento in colpa" è una delle più utilizzate nel gergo quotidiano, quando vogliamo spiegare il perché di un determinato comportamento o di una certa azione.
Tante volte siamo soliti affermare: «ho fatto la tal cosa altrimenti mi sarei sentito in colpa», oppure: «ho evitato di compiere la tale azione, altrimenti non avrei sopportato la colpa».

Ad una analisi più approfondita delle cause e delle motivazioni che ci spingono ad agire, però, quasi sempre scopriamo che non si tratta di un'auto-attribuzione di colpa bensì di qualcosa di molto diverso che può assumere svariate connotazioni. Provo a spiegarmi con alcuni esempi tratti dalla mia esperienza terapeutica.

Un ragazzo che viene da me in terapia è assillato da un collega di lavoro con un atteggiamento prepotente che lo infastidisce, lo irrita e lo mette spesso a disagio. Il ragazzo deve spesso comprimere la propria rabbia nei confronti di lui, altrimenti, dice, verrebbe alle mani.
Dunque questo mio paziente nutre un comprensibile odio e spirito di rivincita nei confronti del collega indisponente e vessatore.
Mi viene raccontato che un giorno si stava organizzando una cena con i colleghi di lavoro e lui (il ragazzo che seguo) aveva l'incarico di raccogliere le adesioni. Bene, avrebbe potuto benissimo evitare di presentarsi dal tizio prepotente per invitarlo alla cena – cosa che, tra l'altro, avrebbe incontrato la soddisfazione degli altri colleghi poiché nessuno vede di buon occhio il prepotente – invece egli si sentì costretto a rivolgersi al prepotente per chiedere anche la sua adesione alla cena.
«Mi dispiaceva per lui... ero obbligato ad invitarlo, mi sarei sentito in colpa se non lo avessi fatto!», mi dice durante una seduta per giustificare l'azione compiuta. Ma come è possibile?

Il senso dell'obbligo. Avrebbe dovuto essere contento e non dispiaciuto di godersi la cena con i colleghi senza di lui. E poi il senso di colpa ha a che fare col senso del dovere, con la giustizia, con l'integrità morale: cosa c'entrano queste cose con l'obbligo di invitare a cena un personaggio fastidioso, che, peraltro, nessuno dei partecipanti avrebbe voluto vedere seduto accanto a sé al ristorante?
La chiave della spiegazione sta nel termine «obbligato», la parola usata dal mio paziente per giustificare l'infelice invito a cena rivolto al prepotente e il (presunto) senso di colpa ad essa collegato. L'obbligo, è vero, lui lo ha sentito, ma non per senso di colpa, bensì per timore di qualche ritorsione da parte del collega prepotente, il quale avrebbe potuto, in seguito, rimproverarlo duramente se non avesse ricevuto l'invito a cena.
Si tratta di semplice paura e non di colpa.

Sicuramente è più accettabile e più dignitoso fare riferimento al senso di colpa che non alla paura: il senso di colpa ha a che fare con precetti morali, quindi con dimensioni etiche elevate; la paura, invece, rimanda a debolezza, timore, inadeguatezza. Quando noi esprimiamo le nostre considerazioni, le nostre valutazioni (specialmente le auto-valutazioni!) tendiamo a mostrarci agli altri con una immagine che ci salvaguardi il più possibile.

Angoscia d'abbandono. Un'altra situazione tipica, che mi è capitata spesso in terapia, riguarda il presunto senso di colpa verso il partner appena lasciato, magari dopo aver penato le classiche sette camicie per liberarci di lui (o di lei). Spesso capita che si vada a cercare il partner appena mollato (adducendo una scusa anche banale), perché, mi viene riferito, «mi dispiace per lui (o per lei) che è rimasto solo e forse è in difficoltà, e può essere che abbia ancora bisogno di me: in fondo che male c'è se lo vado a trovare per sapere come sta?».
Dietro a questo sorprendente (ma apparente) interesse per chi potrebbe essere in difficoltà si nasconde quasi sempre il bisogno di assicurarci che l'ex partner non si sia dimenticato di noi: che non nutra del risentimento nei nostri confronti e che, in qualche modo, non ci escluda completamente dalla sua vita. In altre parole noi abbiamo bisogno di conservare la speranza che un domani la storia possa riprendere e per questo non possiamo permetterci di chiudere definitivamente...

Anche qui, come nell'esempio precedente, non è presente un timore per l'altro bensì una preoccupazione per noi stessi: spacciamo per senso di colpa la paura di venire accantonati, messi da parte definitivamente.
È quello che, tecnicamente, viene definito "angoscia d'abbandono".
Chi è troppo accondiscendente spesso nasconde, dietro al paravento chiamato "senso di colpa", il bisogno di non perdere la considerazione degli altri e quindi la stima di sé.

Il bisogno di approvazione. Seguo da tempo una persona che ha un rapporto di dipendenza ancora molto forte nei confronti del padre.
Ha un bisogno vitale della sua approvazione altrimenti non si sente a posto. E questo in tutte le scelte da compiere nella propria vita. Nonostante il mio paziente sia un professionista affermato, con una famiglia importante e con relazioni sostanzialmente soddisfacenti, per tutte le proprie decisioni egli deve avere l'approvazione da parte del padre altrimenti "si sente in colpa" nei suoi confronti.
«Come potrei dargli un dispiacere, poi proprio ora che è anziano e malato?» mi ripete sempre. Per evitare di dargli un qualunque dispiacere – ammesso e non concesso che questi rimarrebbe deluso se il figlio non seguisse i suoi consigli sulle cose da fare – basterebbe non raccontargli le decisioni che potrebbero non trovarlo d'accordo. «Ma io poi mi sentirei in colpa - ripete il mio paziente - anche perché mio padre ha bisogno che io lo faccia contento dato che non ha avuto molte soddisfazioni nella vita».

Angoscia per sé. In realtà è lui ad avere bisogno di un padre contento del proprio figlio altrimenti non si sentirebbe a posto con se stesso: quando era piccolo, racconta, egli doveva sempre accontentarlo e sottomettersi a lui, assumendosi anche colpe per azioni che non aveva commesso.
Egli si scusava sempre e comunque con lui: la possibilità di deluderlo era inammissibile. Ma se ciò può essere giustificato - sempre fino ad un certo punto - per un bambino, non può essere ammesso per una persona adulta: le proprie scelte, la propria autonomia, la propria indipendenza di giudizio non dovrebbero essere beni barattabili.
Ma quando la paura è forte e, come in questo caso, è paura (inconscia) di non reggere il suo (presunto) discredito, la sua disapprovazione, allora questa paura diventa una spada di Damocle sulla propria vita.
Non si tratta di preoccupazione per l'altro ma di angoscia per sé.

Uno degli scopi della psicoterapia psicoanalitica è quello di svelare alle persone in trattamento i loro veri sentimenti, le loro reali sensazioni. Altrimenti si continua a vivere nell'illusione, nella finzione, nell'artificio.
E questo, inevitabilmente, porta a conflitti e a fraintendimenti con se stessi che si ripercuotono poi sul nostro umore, sulla nostra soddisfazione e sulla qualità delle relazioni con gli altri. Identificare correttamente i propri vissuti può essere, a volte, anche doloroso, ma è necessario per essere veramente presenti a se stessi.

Bibliografia essenziale
  • Devoto Oli, "Dizionario della lingua italiana", Le Monnier, Firenze, 2000
  • Freud S., "Introduzione alla psicoanalisi" (nuova serie di lezioni), (1932), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1979, volume XI
  • Galimberti U., "Enciclopedia di Psicologia", UTET, Torino, 1992
  • Signorini G., "L'arte di persuadere", Pendragon, Bologna, 2004

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