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Articolo di psicologia: «Psicologia e felicità»

Alla conquista della felicità

Articolo pubblicato il 2 Dicembre 2011.
L'articolo "Alla conquista della felicità" tratta di: Terapia Cognitivo Comportamentale.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Federica Ripamonti.

Sul quotidiano La Repubblica è apparso un articolo dal titolo "Felicità. È contagiosa, i vicini la trasmettono. Ecco i sette segreti per conquistarla". Si riferisce ad una recente ricerca frutto di calcoli e statistiche, pubblicata dal Financial Times, ad opera di Nick Powdthavee e Carl Wilkinson.
Quali sono, dunque, questi sette segreti che tutti noi vorremmo sapere?
Alcuni, per la verità, li sapevamo già o avremmo dovuto saperli.

  • Primo "I soldi non fanno la felicità": dalla ricerca sembra infatti che il piacere che il denaro può comprare sia solo modesto, anche perché più aumentano i nostri guadagni e più siamo costretti a paragonarci con persone di un livello economico superiore.
  • Secondo (e anche questo lo sapevamo già): "Gli amici fanno la felicità".
  • Terzo (forse un po' più inaspettato): "Vincere alla lotteria non dà felicità immediata": lo choc di una vincita inattesa, infatti, richiede almeno due anni per essere metabolizzato.
  • Quarto: "Perdere il lavoro rende infelici", ma in questo caso sembra valere il detto "Mal comune mezzo gaudio" e la ricerca evidenza che essere licenziati non spalanca le porte all'infelicità, se non siamo i soli a perdere il lavoro. Se il tasso di disoccupazione del proprio Paese è alto, infatti, resta il dramma economico ma la propria autostima non vacilla.
  • Quinto: "Gli amici grassi rendono più felici di quelli magri".
    Sembra, infatti, che chi ha un indice di massa corporea superiore a 30 sia infelice, ma solo se è costretto a paragonarsi a persone magre.
  • Sesto: "Il divorzio può rendere felici, piuttosto che vivere con chi ci affligge", e meglio ancora se siamo noi a richiederlo, invece che subire la decisione del partner.
  • Settimo ed ultimo, e forse più inaspettato: "La felicità è contagiosa". Vivere nello stesso caseggiato o quartiere con chi sorride fa di noi persone più felici. Ma senza troppa intimità, perché se queste persone vivono nella stessa casa o ufficio le probabilità di contagio si abbassano rapidamente.

Tutto qui? Sembra che i segreti per una vita felice siano limitati e alla portata di tutti. E in Italia? Lo studio comparato più approfondito resta quello condotto da Roberto Foa e pubblicato su Perspectives on Psycological Science che evidenzia come la quota delle persone che si definiscono "molto felici" sia passata dal 10% nel 1981 al 16% nel 2007. L'Italia si piazzerebbe così al 17° posto nella scala dei "Paesi più felici", dietro Ungheria e Moldavia. L'aumento della felicità sarebbe da ricondursi, secondo Foa, al maggior livello di libertà personale e collettiva raggiunta in molti Paesi, e non, come si potrebbe pensare, alla crescita economica.

Il ruolo della Psicologia. Detto questo, quale può essere il ruolo della psicologia nella "ricerca delle felicità"?
In ambito psicologico, lo studio del benessere soggettivo "ha dato origine al vasto e sfaccettato movimento della Psicologia Positiva" (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000), «che ha fornito contributi fortemente innovativi a livello teorico ed applicativo: essa enfatizza il ruolo fondamentale delle risorse e potenzialità dell'individuo, che le ricerche precedenti - volte ad analizzare carenze, deficit e patologie - non mettevano in luce. Ciò rappresenta un autentico capovolgimento di prospettiva: si privilegiano interventi finalizzati alla mobilizzazione delle abilità e risorse della persona, anziché alla riduzione o compensazione dei suoi deficit». In quest'ambito, numerosi studi hanno permesso di dimostrare che gli indicatori oggettivi (reddito, salute, condizioni sociali...) non sono sufficienti a garantire il benessere e la soddisfazione.

In altre parole, non è detto che un individuo che gode di buona salute, percepisce un discreto stipendio e vive in una bella casa sia, per forza, felice. Allo stesso modo, non è detto che chi è costretto a vivere su una carrozzina, o chi fa fatica a tirare la fine del mese, o chi vive nei grigi casermoni della periferia sia, necessariamente, più incline alla tristezza.
Banale? No, affatto, se pensiamo che per anni ci siamo sentiti dire che «Basta la salute...» o abbiamo avvertito un po' di senso di colpa quando i nostri famigliari, vedendoci depressi, ci sottolineavano che avevamo tutto o ci spingevano a guardare tutti quelli che stanno peggio di te.
«Non prendertela, passerà!», «Perché non provi a fare così?», «Se io fossi in te non mi sentirei così giù!», «Dovresti cercare di rilassarti un po', sei troppo nervoso», «Tirati su!», «Sei un ingrato», «Basta un po' di forza di volontà»... quante volte chi è depresso si è sentito rivolgere - da famigliari, amici, conoscenti - frasi simili? Nonostante gli intenti nobili di chi vorrebbe aiutarci a star meglio, il risultato è spesso l'opposto: non solo non ci offrono alcun aiuto ma quello che in genere ne esce rafforzato è solo il nostro senso di inadeguatezza.

Ciò che emerge dalle ricerche degli ultimi anni è, dunque, che «la qualità della vita ed il benessere sono concetti relativi: ogni individuo ne elabora un'interpretazione personale, in base alle proprie condizioni fisiche, al ruolo sociale, alle proprie caratteristiche psicologiche e allo stile di interazione con l'ambiente». Cioè, un individuo «valuta il proprio stato di salute, il proprio livello di soddisfazione nell'ambito sociale, lavorativo e personale, i traguardi raggiunti e gli obiettivi futuri in base a parametri che possono differire anche profondamente dalle condizioni oggettive in cui si trova ».
È ciò che l'individuo pensa, e non solo ciò che è, a determinare il suo benessere. E come non scorgere un immediato collegamento con la psicoterapia cognitiva, il cui assunto fondamentale è che siano proprio i nostri pensieri, le credenze, gli schemi automatici a determinare il nostro modo di sentirci e di comportarci, e, in ultima analisi, a spiegare il disagio psicologico e il suo perpetuarsi nel tempo?

Secondo la prospettiva cognitivista, infatti, il ruolo giocato dagli eventi esterni non è solo di tipo causale, ma personale, cioè basato sul sistema di convinzioni e di esperienze del soggetto. Ciò che permette di spiegare le nostre reazioni (e anche le nostre difficoltà) è il modo di interpretare gli eventi. Per fare un esempio, non sono arrabbiato perché ho perso il treno ma perché penso delle cose rispetto all'aver perso il treno, evento indubbiamente spiacevole, che mi rendono arrabbiato. Controprova, è il fatto che persone diverse, rispetto allo stesso evento, hanno pensieri, e dunque reazioni, diverse. E allora, al di là delle "ricette" standard, meglio ricercare la propria soddisfazione personale, mediante un'analisi più o meno approfondita, da soli o con uno specialista, delle nostre convinzioni e dei pensieri che ci portano a sviluppare ed accrescere la felicità.

Fonti bibliografiche e siti internet utilizzati
  • "Felicità. È contagiosa, i vicini la trasmettono. Ecco i sette segreti per conquistarla", articolo di Vera Schiavazzi su La Rebubblica, lunedì 30 Agosto 2010
  • "Elementi di psicoterapia cognitiva", a cura di Claudia Perdighe e Francesco Mancini, Giovanni Fioriti editore. www.psicologiapositiva.it

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