Articolo pubblicato il 18 Maggio 2012.
L'articolo "Il disturbo depressivo" tratta di: Depressione.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Elena Agio.
Quando una persona è affetta da disturbo depressivo, solitamente soffre di una profonda tristezza accompagnata da svariati sintomi di differente intensità a seconda delle peculiarità di ognuno.
Possiamo riscontrare la mancanza di volontà a fare e reagire, sensi di colpa nei confronti dei propri familiari o riguardo ad aspetti della vita, pensieri ricorrenti sulla gravità della propria situazione e l'incapacità di vedere una luce in fondo al tunnel depressivo.
Mi rifaccio al libro scritto dal medico Eugenio Borgna (1992) sulla Malinconia per descrivere, da un punto di vista fenomenologico, le caratteristiche principali della depressione. Premetto che la Fenomenologia è quella corrente psicologica che si rivolge ai problemi mentali - e più in generale al funzionamento della psiche umana - e si basa su come i fenomeni appaiono nella loro naturalezza e semplicità, cioè al centro del suo interesse c'è il vissuto del paziente e le modalità particolari con cui questi vive e racconta la propria esperienza di sofferenza.
Tristezza. Il sintomo centrale della depressione è, come già detto, la tristezza che il soggetto sente e che difficilmente lo abbandona.
Questa solitamente è visibile nelle parole e nei discorsi del depresso e addirittura nell'espressione contrita del volto. A questa si accompagna la perdita di quasi tutte le speranze relative al fatto che la sua situazione possa cambiare, che possa guarire e che ci sia una via d'uscita che gli dia un po' di sollievo.
Il soggetto tende a farsi avvolgere in un vortice di negatività e pessimismo, in cui continua a rimuginare sulla propria condizione di sofferenza e da cui difficilmente riesce a uscire, rimanendoci intrappolato tutto il giorno.
Alla tristezza e alla disperazione può accompagnarsi l'angoscia
Angoscia. «L'angoscia non è la paura: non si identifica con il timore», così scrive Borgna nel testo precedentemente citato. L'Autore prosegue riportando delle argomentazioni filosofiche, da Kierkegaard a Heidegger, cercando di spiegare come la paura sia sempre la paura per qualcosa di determinato, mentre nell'angoscia ci sia un senso di indefinito, come se l'oggetto che provoca angoscia sia inafferrabil e forse anche indicibile.
Scrive sempre Borgna: «... è possibile forse sottolineare come nell'angoscia depressiva si abbia l'immagine di una catastrofe terrificante, e si abbiano autodescrizioni presaghe di una vertiginosa nostalgia di nientificazione, che non sono confrontabili nella loro incandescenza emozionale con quelle che sono le abituali modalità di vivere l'angoscia».
Nel paziente può quindi essere riscontrabile una dimensione catastrofica dell'angoscia, quando si sente come se fosse sempre sul limite di un baratro, ma non riesce a definire cosa effettivamente possa accadere di così tremendo e tragico. Si sente imprigionato in un limbo che sembra essere il regno incontrastato dell'angoscia, il suo habitat preferito, poiché non c'è nulla di determinato a cui appellarsi per contrastarla o almeno darle un nome.
Questa angoscia può materializzarsi nel vissuto del paziente come un senso di oppressione allo stomaco e un continuo sentirsi mancare il respiro. Il corpo diviene un mezzo di espressione per i suoi vissuti.
Il volto diviene sempre di più un biglietto da vista per il suo stato angoscioso, poiché assomiglia a quello di una persona che ha passato la notte in bianco; gli occhi possono sembrare persi nel vuoto e anche quando riescono a incontrare quelli del terapeuta, questi può vedere in essi un pozzo nero senza fondo.
Borgna descrive in un linguaggio fenomenologico chiaro tali aspetti:
«Nella condizione depressiva lo sguardo è radicalmente interiorizzato...», «... il volto si oscura e si smarrisce; ... pietrificato nella sua immagine corporea che non si slancia nel mondo e si consuma nella sua immanenza».
Questo chiudersi del corpo nei propri confini è l'espressione non solo dell'angoscia, ma anche della profonda solitudine nella quale può sentirsi imprigionato il depresso.
Solitudine. Spesso questi non è in grado di sintonizzarsi affettivamente con le persone che gli stanno vicino e tentano di aiutarlo, essendo incapace di accogliere dentro di sé l'affetto degli altri e di conseguenza sentendosi solo e abbandonato. Il suo rapportarsi a loro può essere caratterizzato da un profondo senso di colpa per la sua incapacità di uscire dallo stato depressivo e reagire alla situazione; può quindi sentirsi di peso a chi gli sta vicino e sprofondare ancora di più nello sconforto. Dall'altra parte può anche sentirsi non capito dai propri familiari, poiché spesso questi affrontano la malattia del loro caro cercando di spronarlo a reagire e ripetendogli frasi come "dai, forza, devi reagire, usa la volontà!".
L'essere spronato in questo modo fa sentire il soggetto in bilico tra il senso di colpa e il sentirsi incompreso, poiché il suo vissuto è quello di essere proprio incapace di tirare fuori la minima volontà per reagire.
Ogni incoraggiamento a farsi forza risulta dissonante con le proprie sensazioni e possibilità, andando ad accentuare così la sensazione di solitudine che il paziente prova.
Le categorie di spazio e tempo mutano nella persona affetta da depressione rispetto al passato. La casa può divenire da una parte uno spazio che dà un senso di soffocamento e costrizione, ma dall'altra può anche essere uno spazio da cui a fatica ci si allontana, perché significa protezione da ciò che è all'esterno. Il tempo parallelamente sembra essersi bloccato, non passare mai. Le ore del giorno sono interminabili.
Il tempo vissuto è in profonda dissonanza con il tempo reale.
Spesso accade che il paziente guarda l'orologio a distanza di poco e quindi immaginare che le lancette segnano un tempo diverso da quello vissuto da lui. La sua sensazione è che siano passate delle ore, ma in realtà sono trascorsi solo pochi minuti. Questo rallentamento del tempo vissuto è logorante, poiché non solo le giornate sono intrise di sofferenza ma anche non passano mai, per cui la sofferenza stessa sembra non aver fine.
Mancanza di volontà. Uno dei sintomi ricorrenti è la mancanza di volontà a fare qualsiasi cosa, di compiere qualsiasi azione o compito.
Spesso il paziente vive la perdita di tutti gli interessi che prima amava, sente che non c'è più nulla che possa stimolarlo a fare e uscire dalla sua apatia. Le sue giornate iniziano con un senso di pesantezza e di angoscia per tutto quello che potrà succedere durante la giornata.
Gli pesa pensare che deve alzarsi e sforzarsi di fare il minimo indispensabile per passare la giornata. Non ha voglia di dedicarsi alla sua igiene personale, di vestirsi. Tutto quello che fa, gli pesa. Solo il dormire a volte può rappresentare un sollievo dalla pesantezza della giornata trascorsa.
Quando però anche il dormire viene a mancare e subentra l'insonnia, la situazione peggiora drasticamente.
La conseguenza più grave di un disturbo depressivo è che il paziente possa iniziare a pensare al suicidio e cercare di intentarlo con più o meno determinazione. L'arrivare a questo punto di non ritorno può essere legato al sentirsi disperato, senza possibilità di uscire dalla propria sofferenza.
Il porre fine alla propria esistenza diviene quindi l'unico modo pensabile per non sentire più dolore e per fermare la macchina infernale della depressione.
Tutti questi elementi che possono caratterizzare il quadro depressivo di un paziente, possono avere un andamento ciclico e variare nella loro intensità e gravità. Indubbiamente la loro costellazione e la modalità con cui si presentano alla coscienza del paziente, influenzano la sua possibilità di chiedere aiuto per il proprio disturbo e cercare di trovare una soluzione in una terapia psicologica.
Le proposte terapeutiche, che mi accingo a esporre di seguito, sono in linea con quanto già detto, cioè si basano su un approccio di tipo fenomenologico che cerca di rispettare il vissuto del paziente e di utilizzarlo come elemento fondamentale all'interno della terapia stessa.
Come in ogni psicoterapia il primo obiettivo è quello di creare una buona alleanza terapeutica, un rapporto di fiducia tra clinico e paziente, soprattutto se la richiesta di andare in terapia non è partita spontaneamente da quest'ultimo, ma c'è stato l'intervento di qualche familiare, del medico di base o dello psichiatra.
La motivazione a farsi curare all'inizio può sembrare incerta, proprio perché il depresso è scoraggiato di natura, se così si può dire, e quindi non “spera” che il percorso terapeutico possa giovargli.
Per agevolare la strutturazione di questa alleanza è importante che lo specialista sappia creare un clima di accoglienza e ascolto, che aiuti il paziente depresso a sentirsi accettato anche nelle difficoltà e resistenze che porta nel venire in terapia.
La Terapia. Lo spazio terapeutico è di “proprietà” del paziente, è uno spazio “suo” in cui deve sentirsi libero di esprimere ciò che vuole, fino al punto di stare in silenzio per tutta la seduta, se è questo che in quel momento si sente di fare.
Quando la relazione tra terapeuta e paziente ha raggiunto un livello sufficiente di fiducia reciproca - ed è quindi in grado di reggere le forti emozioni che si sviluppano in una terapia - ci si può addentrare nel vivo del processo terapeutico, andando ad affrontare i temi che più fanno soffrire il paziente.
La terapia si costituisce come un luogo in cui sfogare i propri vissuti, soprattutto per quanto riguarda i sentimenti e le emozioni negative, le paure e le angosce. Dato che spesso nella quotidianità è difficile poter sfogare tutta la propria preoccupazione e negatività, il paziente inizia a riconoscere lo spazio della terapia come un luogo in cui poter tirare fuori queste cose senza rattristare nessuno, senza nuocere o far soffrire chi gli sta vicino.
Il terapeuta, durante i colloqui, fa sentire al paziente la propria vicinanza, lo ascolta con dolcezza, cercando di “sentire” quello che vuole trasmettere, e accogliendo tutto quello che viene fuori emerge durante la seduta.