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Dott.ssa Rossella Grassi
Bulimia, Anoressia, Obesità, Milano (MI) - Romano di Lombardia (BG)

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La fame: tra vuoti, pieni ed emozioni

Articolo pubblicato il 16 Settembre 2013.
L'articolo "La fame: tra vuoti, pieni ed emozioni" tratta di: Disturbi Alimentari, Anoressia e Bulimia.

Collaborando con il reparto dipendenze alimentari (sovrappeso, obesità, anoressia e bulimia) del Policlinico della mia città e supportando numerose persone che hanno difficoltà nel gestire la relazione con il proprio peso, mi sono resa conto come questo elemento sia solo la punta dell'Iceberg di un mondo complesso e sommerso. Emergono tanti elementi che mi colpiscono.
La valenza affettiva che spesso, soprattutto nelle famiglie del Sud, il cibo acquisisce.

La valenza affettiva del cibo. Tradizione culinaria ed espressione dell'affetto si "mescolano": offrire cibo è sì un mezzo per nutrire, ma assume anche significati "altri" come quello di dimostrare affetto, vicinanza, apprezzamento, attenzione. E questi bimbi ormai adulti che incontro, in momenti difficili della loro vita, si coccolano e si rassicurano anche oggi con questo "mezzo". È un po' come avere qui vicino, anche ora che è molto lontana nel tempo e nello spazio, la loro mamma. Spesso sento: «Posso rinunciare a tutto ma ai dolci fatti in casa no!». Nasce da qui l'esigenza di un percorso psicologico con la finalità di aiutare la persona a consolarsi e rassicurarsi in un modo nuovo e rispettoso del proprio corpo.

Il cibo come espressione emotiva - in gergo clinico "emotional eating" (o mangiare per compensazione) - si mangia non perché si abbia fame ma perché c'è un'emozione che non si sa come gestire ed esprimere.
La rabbia è spesso associata al salato. Le urla, l'insoddisfazione, l'amarezza, lo scontento per un'invasione o un'ingiustizia subita, anziché espressi direttamente per affermarsi e tracciare i propri confini, vengono convogliati all'interno dei "morsi" dati al cibo.

La rabbia. La mandibola mastica con ferocia, la carica di energia viene espressa contro il cibo e purtroppo contro di sé. «Mi ferisco per non ferire».
«Il mio peso aumenta e la mia rabbia è sempre più nascosta e controllata sotto chili e chili. Così anche il mio malcontento e la mia frustrazione».
«Le persone che mi stanno intorno mi invadono con le loro richieste, ma la mole del mio corpo in qualche occupa lo spazio che non so difendere e che mi lascio sottrarre».

Esprimere le emozioni. È molto utile in questi casi un percorso per aiutare la persona a trovare un modo sano e funzionale per esprimere le proprie emozioni, nell'esempio sopra citato si tratta della rabbia.
Conoscendola, contattandola, facendo amicizia con lei, scoprendo che non è poi così terribile e spaventosa come si pensava e imparando ad esprimerla con un bel: «NO!».

La tristezza, il dolore, la solitudine, l'esigenza di consolazione vengono placati con un alimento, spesso dolce, che richiama la dolcezza della quale si ha bisogno. Una dolcezza sempre accessibile, una consolazione "facile", pronta, sempre presente che soddisfa inizialmente ma... mai fino in fondo. Che sostituisce la richiesta, spesso molto difficile da verbalizzare, di comprensione, vicinanza... di un abbraccio caldo, comprensivo e consolante. Questa Parte Piccola, sofferente, indifesa, spaventata, bisognosa di tanta dolcezza e rassicurazione viene, come nel caso precedente, ben nascosta dalla "mole" del peso. E... «Più mangio più la tengo nascosta dentro un posto inaccessibile e protetto».

Il corpo diventa una barriera protettiva, una corazza, tanto più grande quanto più la mia Parte Piccola è percepita come in pericolo e indifesa. Questo perché probabilmente la persona non trova, non possiede o semplicemente non ha "imparato" altri modi per accoglierla, proteggerla e occuparsene. Allora comincia un percorso per incontrare questa Parte Piccola, andando a cercarla piano piano, delicatamente, là dove si è nascosta. Una volta trovata questa Parte Piccola e sofferente è necessario trovare dei modi per ascoltarla e rassicurarla.

Il cibo, la sensazione di fame profonda e antica, come urlo disperato per riempire un vuoto, una voragine spaventosa «che non so gestire, non so ascoltare, con la quale non so dialogare. Allora riempio fisicamente questa voragine, come se si trattasse di una questione fisica. Ma più mangio più il vuoto aumenta. E nemmeno sentire il cibo in gola mi dà la sensazione di essermi riempito». Perché non è di un vuoto fisico che si tratta.
Allora si può imparare che: per togliere (chili) bisogna aggiungere (affetto, riconoscimenti).

Bisogna imparare a smettere di evitare il proprio vuoto e trovare il coraggio per guardarci dentro, dargli voce, ascoltare quello che ha da dire. Cosa chiede? Di cosa ha bisogno?
E quando lo si guarda bene spesso si scopre che quest'assenza, svuotata dal dolore che porta, è spazio: spazio per respirare, spazio da riempire con cose nuove, buone. Questa è la mia lettura della bulimia: il tentativo fallito di riempire questo vuoto con le "cose" sbagliate. Che poi, spesso si rigettano fuori perché non sono proprio le "cose" che servivano.
L'anoressia invece la leggo come il rifiuto, il rifiuto non del cibo in sé, ma di quello che attraverso il cibo è stato veicolato. Un affetto soffocante, non utile a quella persona.

È come se un bimbo dicesse alla sua mamma: «Guarda che il vestito che mi metti non è della mia misura, è troppo stretto. Non curarmi così, io ho bisogno di altro». Anche qui spesso si scatenano lotte di potere e non si legge tra le righe quello che la persona, rifiutando il cibo, comunica: «Quello che mi dai non è quello di cui ho bisogno ho bisogno di altro».
E cos'è questo altro di cui la persona ha bisogno? Che forma ha?
Che consistenza ha? Che colore ha? Che morbidezza ha?

Spesso - quando la persona trova questo "altro" nutriente e rassicurante - smette di cercarlo attraverso il rifiuto del cibo.

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