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Articolo di psicologia: «Psicoterapia e tecniche di rilassamento»

La meditazione in Psicoterapia

Articolo pubblicato il 20 Maggio 2014.
L'articolo "La meditazione in Psicoterapia" tratta di: Tecniche di Rilassamento, Mindfulness, Training Autogeno e Terapia Cognitivo Comportamentale.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Raffaella Arrobbio.

Negli ultimi anni è nata - ad opera di molti autori e grazie ad incessanti ricerche sul campo - quella che si definisce la terza generazione della Terapia Cognitivo Comportamentale. A partire da valutazioni critiche del modello di Terapia Cognitivo Comportamentale di seconda generazione, si è cominciato a indirizzare il focus terapeutico sull'importanza di cambiare la relazione che una persona ha con le proprie esperienze interne.

Mindfulness. Invece di cercare di modificare il contenuto dell'esperienza interna stessa, l'obiettivo diventa l'accettazione non giudicante dei propri eventi interni: la strategia più significativa di questo approccio è la Mindfulness (consapevolezza), un'abilità tramite cui si osservano i propri pensieri, le emozioni e gli stati fisici, in modo attento ma non giudicante.
Da questo nucleo centrale - la strategia di Mindfulness - si sono definite strategie terapeutiche, come ad esempio la Mindfulness Based Cognitive Therapy (Terapia Cognitiva basata sulla Consapevolezza) o l'Acceptance and Commitment Therapy (Terapia dell'Accettazione e dell'Impegno).

In questo articolo mi propongo di non fare una ripetizione della ormai vasta letteratura in merito alla Mindfulness1 ma, piuttosto, di tracciare una sorta di cronaca storico/soggettiva di come, per me ma anche in generale, sia sorta e si sia formata nel tempo la consapevolezza della possibile sinergia tra la psicoterapia cognitiva e alcune metodologie tipiche della meditazione buddhista, da cui è stato mutuato l'approccio Mindfulness.

La pratica della calma mentale

Quando, verso la metà degli anni '80, iniziavo la pratica della meditazione sotto la guida di un maestro tibetano - il Lama Giang Ciub Sondup, appartenente alla scuola di Buddhismo tibetano Kagyupa (la via della trasmissione orale) - era ancora lontana l'ipotesi di una relazione tra questo e le forme di psicoterapia abituali in occidente. Eppure, un giorno in cui il Lama Giang Ciub mi aveva chiesto in che cosa consistesse il mio lavoro e io iniziavo a rispondergli, descrivendo a grandi linee che cosa effettivamente io facessi con i pazienti, lui mi interruppe dicendo: «Allora potresti insegnare ai tuoi pazienti la meditazione di sciné!». Non abbiamo più approfondito questo discorso, ma questo è stato senz'altro il primo seme che mi ha indirizzata ad osservare la mia stessa pratica di meditazione con uno sguardo aperto alle connessioni con la mia attività professionale di psicoterapia.

Sciné è la parola tibetana che traduce il sanscrito Samatha, il cui significato è "dimorare nella calma", da cui il più colloquiale calma mentale.

La pratica della calma mentale è un percorso fondamentalmente basato sull'attenzione al respiro, almeno nelle prime fasi dell'apprendimento2: appoggiando la mente sull'osservazione del respiro, si allena l'attenzione a focalizzarsi sempre meglio su questo unico punto mentre lentamente diminuiscono la dispersione e la distrazione.
Secondo le parole riportate nel Canone Buddhista: «Chi prima viveva immerso nella distrazione e poi si fa attento, costui illumina questo mondo, come luna liberata dalle nubi» (Dhammapada, 172).
Questa pratica meditativa diventa così una pratica di consapevolezza continua, di presenza mentale (Sati in sanscrito, Drenpa in tibetano), secondo l'indicazione che troviamo nel "Mahasatipatthana Sutta" (discorso XXII del Digha Nikaya), Il Grande Discorso sulla Consapevolezza: «Consapevole egli inspira, consapevole egli espira... Dimora nella mente osservando la mente... Questa viene detta retta consapevolezza».

Nel contesto della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, io fin dall'inizio ho utilizzato tecniche di rilassamento, quali il rilassamento frazionato di Jacobson e, soprattutto, il Training Autogeno di Schultz3. Dapprima ho introdotto tali tecniche di rilassamento in senso funzionale, come strumento terapeutico nei disturbi d'ansia e nelle fobie, ma in breve tempo, con l'esperienza crescente delle possibilità positive derivanti dalla risposta di rilassamento, mi sono trovata ad inserire la tecnica di rilassamento in più del novanta per cento dei casi: è infatti evidente l'importanza di uno stato fisiologico e mentale rilassato come strumento facilitante la psicoterapia in rapporto ad ogni tipo di problematica4.
E qui si è evidenziato per me un primo nesso possibile tra la pratica della meditazione di calma presenza mentale e la psicoterapia.

Come nella meditazione di Samatha, anche nel training autogeno la persona si allena a mantenere l'attenzione sulle sensazioni corporee che, dunque, costituiscono la base per l'affinamento attentivo. Questo avviene attraverso un particolare tipo di concentrazione, definito concentrazione passiva: la persona impara a non agire, ma a restare semplicemente nell'osservazione del proprio corpo e delle sue modificazioni. In particolare, abbiamo nel training autogeno un esercizio in cui l'allenamento consiste nel prendere contatto con il respiro, osservandolo tranquillamente.

Questo è soltanto un primo punto di contatto tra metodiche orientali e occidentali, ma una tale affinità tecnica ci indica un fattore molto importante per la salute psicofisica: l'attenzione ben presente e lucida, nel contesto di un atteggiamento mentale non interventista, non attivato, di semplice osservatore5.
In un certo senso, questo atteggiamento mentale sembra simile a quello indicato da Sigmund Freud come fondamentale per il terapeuta: l'attenzione fluttuante che non si attacca a nessun contenuto, ma tutto lascia emergere senza intervenire.

Un'immagine tradizionale che si incontra negli insegnamenti di Sciné è la seguente: quando in un contenitore l'acqua è agitata, essa è torbida e non permette di vedere il fondo; quando l'agitazione dell'acqua si ferma riusciamo invece a vedere cosa c'è sul fondo del contenitore.

La metafora parla della nostra mente: se è troppo agitata da una girandola di eventi mentali non riusciamo a cogliere nulla di ciò che è nel profondo di essa; se riusciamo a calmarla, invece potremo incontrarla nella sua autenticità, riusciremo letteralmente a vedere in essa.
Questo è anche l'antico insegnamento dello Yoga, come lo troviamo negli aforismi di Patanjali: il primo aforisma dice «Yoga significa cessazione delle agitazioni della mente» e il secondo: «Quando le agitazioni della mente sono cessate, emerge la vera natura». Proseguendo nel percorso meditativo buddhista tradizionale, si passa ad un secondo livello di pratica: sulla base della acquisita capacità di calma presenza mentale, è possibile prendere come campo di osservazione non più soltanto il respiro, ma tutti gli eventi che si manifestano all'interno della mente.

Questo secondo livello di pratica meditativa è definito visione profonda (vipassana in sanscrito, lhagthong in tibetano): in essa l'osservazione degli eventi mentali, condotta come osservatori non giudicanti, piano piano libera la mente dalla sofferenza che sorge dalle emozioni e dal rifiuto che spesso si opera verso quei pensieri o stati emotivi stessi.
La visione profonda entra a far parte anche di un percorso psicoterapeutico Cognitivo Comportamentale nel quale rappresenta un significativo passaggio verso una sana accettazione dei propri contenuti mentali.

Finché si lotta e si rifiuta la sofferenza che è in noi stessi essa diventa sempre più forte e si manifesta in mille modi.
Osservando i movimenti di pensieri ed emozioni senza giudicarli, si arriva ad un profondo rilassamento mentale che diventa una solida base a cui appoggiarsi per percorrere il cammino terapeutico. Così nella mia esperienza la meditazione Buddhista di presenza mentale e di visione profonda si sono sempre più proficuamente intrecciate nel condurre il percorso terapeutico di matrice Cognitivo Comportamentale. Contemporaneamente, altri psicologi di ambito Cognitivo Comportamentale nel mondo hanno fatto la stessa esperienza sulla base di un loro personale percorso meditativo, e ne hanno tratte le conseguenze di potenziale efficacia per la psicoterapia.

Il primo psicologo che ha applicato i metodi della meditazione buddhista alla psicoterapia creando la strategia di Mindfulness è stato Jon Kabat-Zinn6. Molti altri hanno seguito questa strada e nelle rassegne della letteratura scientifica si riscontra una evidenza di riduzione significativa delle sintomatologie di sofferenza emotiva e cognitiva.

Vorrei concludere evidenziando però un dato che difficilmente viene chiarito a sufficienza: nelle terapie basate sulla Mindfulness - cioè basate su presenza mentale e osservazione non giudicante dei contenuti della mente - si utilizzano soltanto alcuni spunti tratti dalla meditazione buddhista di riferimento. Tali spunti sono senz'altro importanti e significativamente utili in ottica terapeutica, ma essi non esauriscono la ricchezza dell'insegnamento e della meditazione buddhista. In realtà quest'ultima non ha l'obiettivo a cui noi la pieghiamo nella Mindfulness, essendo il suo obiettivo ben più ampio e anche più radicale di quello di una psicoterapia.

Oltre la sofferenza. Dalla vastità della visione meditativa originaria possiamo secondo me ancora attingere un altro orientamento di grande significato per la psicoterapia: la fiducia nell'esistenza di un potenziale assolutamente sano alla base dell'esistenza di ogni persona, qualunque siano i percorsi e le deviazioni che uno compie e che l'hanno portato fuori strada, a immergersi nella sofferenza.
L'immagine tradizionale dell'oro nascosto nel fango7 è secondo me una stella polare a cui guardare come terapeuti e verso cui indirizzare anche lo sguardo della persona che stiamo sostenendo nel cammino terapeutico.

La visione buddhista è una visione ottimista: per quanto profonda sia la sofferenza, tuttavia esiste una via d'uscita.
E la via d'uscita si basa sul fatto che in ogni essere umano è presente una fondamentale salute, nascosta sotto gli strati di sofferenza che ad essa si sono sovrapposti ma non l'hanno eliminata perché si tratta di un potenziale inerente - congenito - in ognuno.

Dunque, l'azione terapeutica consiste nell'accompagnare la persona sofferente in una paziente opera di svelamento della profonda salute mentale che già è presente nel suo intimo.
Con questa chiara fiducia nella presenza in se stessi dell'oro nascosto nel fango, il cammino terapeutico può essere intrapreso e qualunque sia la sofferenza che una persona sperimenta, per quanto grande sia, essa potrà essere incontrata, accettata, superata.

Nella cornice di questa visione positiva dell'essere umano la strategia di Mindfulness acquista un significato più intenso e - soprattutto - non rischia di essere eccessivamente decontestualizzata e ridotta ad una semplice tecnica tra le altre della Terapia Cognitivo Comportamentale.

Note
  1. Vedi ad esempio: Didonna F., Manuale clinico di Mindfulness, Franco Angeli, Milano, 2011; Bulli F., Melli G. (a cura di), "Mindfulness e Acceptance in Psicoterapia", Eclipsi ed., IPSICO, Firenze, 2010
  2. Wallace A.B., Per una disamina della pratica di Samatha, "La rivoluzione dell'attenzione", Ubaldini Editore, Roma, 2008
  3. Schultz J.H., "Il Training Autogeno", vol. 1 e 2, Feltrinelli, Milano, 1968-1983
  4. Arrobbio R., "Il Tesoro Nascosto. Le vie al benessere interiore", SEI Editrice, Torino, 2001
  5. Goleman D., "Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici", Rizzoli, Mialno, 2013
  6. Kabat-Zinn J., Full catastrophe living: using the wisdom of your body and mind tof ace stress pain and illness, NY, 1990, Trad. italiana "Vivere momento per momento", Corbaccio, Milano, 2005
  7. Arrobbio R., "Il Tesoro Nascosto-Le vie al benessere interiore", SEI Editrice, Torino, 2001

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