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Dott. Giuseppe Piras
Affrontare l'ansia con l'aiuto dello Psicologo, Roma (RM)

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Non posso più rimandare: quando l’ansia ci blocca nel lavoro, nello studio, nella vita

Articolo pubblicato il 14 Ottobre 2011.
L'articolo "Non posso più rimandare: quando l’ansia ci blocca nel lavoro, nello studio, nella vita" tratta di: Disturbi d'Ansia.

Il presente articolo è figlio di alcune riflessioni conseguenti l'esperienza quotidiana con le persone "vittime di ansia paralizzante".
Mi riferisco a quella forma d'ansia che ci blocca nelle scelte quotidiane (esame universitario, riunioni di lavoro, cambio di lavoro, colloqui di lavoro, gare sportive, ecc.). Spesso ricevo telefonate o faccio dei primi colloqui con delle persone che mi contattano poiché il tempo dei rinvii è scaduto.

Non potendo più rimandare o sviare un "appuntamento importante", si ritrovano con l'acqua alla gola e quell'ansia opprimente che non li fa dormire la notte. «Non posso più rimandare la discussione della tesi di laurea».
«Mi hanno cambiato mansione a lavoro e sarò costretta a parlare davanti a tutti». «Ho un appuntamento di lavoro all'estero importante e dovrò prendere per forza l'aereo». «L'appuntamento col medico non si può più spostare». «La partenza è ormai fissata». Queste sono solo alcune delle frasi colme d'ansia che mi sento ripetere più spesso.

Durante il primo contatto telefonico o vis a vis compaiono spesso:
«Dottore, mi deve aiutare, deve farmi passare la paura».
«Tra due settimane ho il volo, crede che insieme riusciremo a sconfiggere la mia paura?». «Vorrei star bene il prima possibile perché rinviare non è più possibile; quanto tempo le occorrerà per far si che si vedano i primi risultati?». «Tra dieci giorni discuto la tesi e ho paura, mi aiuti!».

I tranelli dell'ansia. Non posso negare che di fronte a una richiesta così stringente qualche volta non mi sia trovato anche io in preda ad avvisaglie d'ansia, la quale credo sia sempre un milionesimo in rapporto a quella esperita dalla persona all'altro capo del telefono o della scrivania.
Fatti due bei respiri mi passa tutto, anche perché inizio a riflettere su uno dei principali tranelli dell'ansia e cioè la confusione tra ciò che è urgente e ciò che è importante. È una distinzione fondamentale: spesso chi è in fase acuta va dietro alle urgenze del momento, chi sta meglio inizia a volgere lo sguardo verso ciò che è importante. È in questa distinzione che sta il perpetuarsi o meno del problema.

Riferendomi al mio stato emotivo quando ricevo una richiesta d'aiuto se dovessi andare ad inseguire l'urgenza del momento il mio operato sarebbe schiacciato verso una qualche azione che abbia valenza rassicurante ma non necessariamente aiutante. Sarebbe la famosa rassicurazione che lì per lì ci fa star bene ma che non sbroglia la matassa. Se invece mi chiedessi cosa è realmente importante per la persona che ho di fronte probabilmente mi riapproprierei di una visione d'insieme e prospettica della situazione personale appena ascoltata. Ciò sarebbe d'aiuto per me (avrei decisamente meno ansia) e sopratutto per la persona.

Un racconto può meglio spiegare il concetto "urgenza vs importanza":

Un saggio pescatore cinese che stava pescando sul molo venne interpellato da una donna affamata, la quale non mangiava da giorni. Notando il secchio di pesci che lui aveva preso, la donna lo aveva implorato di donargliene alcuni perché placassero la sua fame.
Dopo un momento di riflessione, il pescatore rispose: «Non ho intenzione di darle alcuno dei miei pesci, ma se raccoglie una canna e si siede vicino a me per un po', le insegnerò a pescare. In questo modo Lei non mangerà soltanto oggi, ma imparerà a procacciarsi del cibo per il resto della Sua vita».
La donna seguì il consiglio del pescatore, imparò a pescare e non soffrì mai più la fame.

Questo splendido racconto, tratto da un altrettanto splendido libro "Penso dunque mi sento meglio" di Dennis Greenberger e Christine A. Padersky, ripercorre metaforicamente il rapporto ideale tra lo Psicologo "pescatore" e il cliente determinato a scacciare il proprio malessere "famelico" in un rapporto che metta in condizione la persona di apprendere gli strumenti per allontanare da sé la "fame."

Spesso chi vive uno stato di forte ansia ha fame e ricorre ad un cibo che lo sazi subito. Lo chiede agli altri, lo cucina da sé: il cibo prediletto è spesso quello dell'evitamento, della procrastinazione, dello sviare.
È un cibo che paradossalmente induce la fame piuttosto che saziarla.
È un po' come bere acqua salata: più ne bevo è più ho sete.

Cosa accade esattamente quando rimandiamo?
Poco prima di un evento per noi importante, il livello della nostra ansia, dapprima basso quando il problema è distante nel tempo, cresce progressivamente con l'avvicinarsi della scadenza fino a divenire insopportabile. Ecco che a quel punto, oppressi dall'ansia, pecchiamo di lucidità e cerchiamo di attuare le manovre che ripristinino un livello di quiete accettabile. Allontanarsi da un pericolo è una delle opzioni.
La natura stessa ci ha insegnato che di fronte ad una minaccia o si scappa, o si attacca o ci si finge morti (il regno animale è ricco di esempi).
Nel momento in cui mi allontano dalla minaccia posso finalmente sospirare: "pericolo scampato!."

Il tumulto ansioso fatto di cuore impazzito, tremori, rigidità, gambe molli si è dissolto. Questa percezione di sollievo è cruciale: per nostra natura infatti tendiamo a ripetere comportamenti che si siano rivelati utili; è chiaro allora che tenderemo a riproporre una condotta di evitamento o procrastinazione laddove ne avessimo riscontrato una certa utilità
Questo elemento ha un peso significativo nel mantenere inalterata la situazione problematica. A differenza degli animali e delle loro reazioni "istintive", noi abbiamo la capacità di riflettere e fare considerazioni sulle nostre azioni per capire se siano state valide o meno.

Dopo un iniziale senso di benessere l'ansia torna e spesso lo fa con un carico aggiuntivo. Infatti, il problema è stato semplicemente allontanato nel tempo e sopratutto iniziamo a chiederci: "ma si può scappare di fronte a questi problemi? Gli altri non lo fanno! Sarò deficiente? Diverso? Ecc.".
Dirci questo mina la nostra quiete ma sopratutto mina la fiducia in noi stessi specie quando la procrastinazione è ripetuta più volte ed in diversi ambiti.

Viviamo con la sensazione costante di un carico sospeso sopra la nostra testa. Rinviare inizia allora ad essere una strategia che fa acqua da tutte le parti. Accade anche che possiamo considerare la procrastinazione come il male minore e piuttosto che esporci a ciò che temiamo (discussione tesi, esame di guida, colloquio di lavoro, viaggio in aereo, ecc.) la impieghiamo fino a quando non può più esser messa in atto.
La realtà spesso, anzi sempre, è più sfumata e complessa di tutte le nostre strategie utilizzate per esorcizzarne gli aspetti di lei più temuti; a quel punto che si fa? In questo frangente si inserisce la presa di contatto con lo Psicologo e la richiesta d'aiuto.

Cosa aspettarsi dallo Psicologo. A tal proposito credo sia utile chiedersi cosa ci si possa attendere lecitamente da un intervento psicologico e cosa invece possa far parte di un meccanismo di urgenza che non possa trovare riscontro pratico per lo meno in tempi stretti. Sicuramente ci si può aspettare che lo Psicologo funga da pescatore che insegna alla persona a saziarsi da sé, cioè che dia spazio all'importanza piuttosto che all'urgenza a costo di qualche crampo allo stomaco per la fame.

È importante la cornice, ovverosia capire quel problema all'interno di quale storia personale si colloca. L'obiettivo non è andare a caccia di fantasmi del passato quanto piuttosto costruire un filo che dia spiegazione dell'attualità e modi per renderla meno angosciante. È importante capire se vi possano essere dei "vantaggi" derivanti dallo stato di disagio: stando male magari riusciamo ad ottenere la "vicinanza" dei nostri cari; riusciamo a tenere in piedi una relazione che altrimenti zoppicherebbe; riusciamo a tenere vicino chi temiamo che ci "abbandoni" nel caso stessimo meglio.
Sono tutte condizioni che arricchiscono il quadro e che meritano più tempo per essere comprese e affrontate.

Completano il quadro il livello di motivazione al cambiamento e la fiducia nello Psicologo con cui condividiamo il percorso. Sono elementi senza i quali ben pochi risultati possono essere conseguiti.

I tempi della Psicoterapia. «Quanto tempo occorre per star meglio?» è la domanda tra le più ricorrenti. È assolutamente lecito porla, d'altronde il livello di sofferenza è tale che si vuole avere almeno un punto di riferimento che indichi la via e ci dica quando finirà questo malessere.
Non ultimo, la Psicoterapia richiede un investimento economico laddove si usufruisca della consulenza di uno Psicologo privato.

Lo star bene come lo star male è figlio di buone o cattive abitudini cognitive e comportamentali. Apprendere a far qualcosa necessariamente richiede del tempo sia essa una cosa utile che una nociva. Le nostre paure non sono comparse dal nulla ma arrivano dopo anni e anni di "esercizio" in cui le abbiamo apprese. Il nostro benessere percorre i medesimi binari.
Occorre quindi del tempo fisiologico che consenta dapprima di comprendere meglio cosa ha favorito la comparsa e il mantenimento del mio malessere e successivamente imparare a sostituire le vecchie risposte comportamentali con le nuove. È un po' come re imparare a condurre la macchina evitando di adottare i vizi di guida che per quanto comodi e "naturali" mi portano ad ammaccare la vettura.

Da ultimo: «Come posso stare meglio?». Altra domanda molto impegnativa.
Lo Psicologo può essere paragonato ad un sarto: realizza gli abiti su misura così che ognuno di essi sia diverso dagli altri. Lo fa perché lo richiede il cliente stesso con le sue personalissime forme. Se anche rifacessi per un cliente l'abito che tanto ha soddisfatto un suo amico rischierei di non rispondere alle sue reali esigenze: le spalle strette, un po' di pancetta, statura diversa porterebbero ad un lavoro poco accorto e in ultimo poco soddisfacente. Questo è uno dei motivi per il quale diffiderei da chi si affretta a dare risposte più da industria tessile che non da sartoria. Occorre incontrarsi per prendere le misure, individuare i tessuti e i colori più adatti.

Potrebbe essere utile imparare delle abilità che mi insegnino a meglio governare delle situazioni attivanti. Dei veri e propri piani d'azione che rispondano a criteri di importanza piuttosto che d'urgenza (coping comportamentale). Potrei imparare delle abilità che mi consentano di riflettere in maniera più articolata e completa quanto mi accade nei momenti topici per non farmi travolgere dall'onda emotiva (coping cognitivo).

Si tratta sostanzialmente di pochi quanto semplici principi.
Di essi possiamo saggiarne la semplicità nelle parole. Nei fatti si tratta di re imparare a guidare la nostra auto e si sa, certe abitudini sono dure a morire ma è anche vero che il nostro cervello ha sufficiente plasticità per acquisire nuovi e più funzionali "stili di guida". Spetterà a noi metterci al volante e cercare di metterli in pratica: "l'istruttore" sarà al nostro fianco in qualsiasi momento per sostenerci e aiutarci!.

Bibliografia di riferimento
  • "Penso, dunque mi sento meglio. Esercizi cognitivi per problemi di ansia, depressione, colpa, vergogna e rabbia" di Christine A. Padesky, Dennis Greenberger, Ed. Erickson, Trento, 1998

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