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Articolo di psicologia: «Adolescenza e Fobia Sociale»

Sindrome da auto-reclusione e relazioni famigliari: come aiutare chi si nasconde

Articolo pubblicato il 10 Novembre 2015.
L'articolo "Sindrome da auto-reclusione e relazioni famigliari: come aiutare chi si nasconde" tratta di: Fobia Sociale, Difficoltà nell'Educazione dei Figli e Adolescenza.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Serena Fiorini.

Da alcuni anni anche nel nostro paese si sente parlare del fenomeno dell'autoreclusione sociale, traduzione imperfetta del termine giapponese Hikikomori (Ndr. da hiku "tirare" e komoru "ritirarsi", letteralmente: isolarsi, stare in disparte). Questo fenomeno è stato osservato e concettualizzato dallo Psichiatra Tamaki Saitō negli anni '90.

Esperto di Psichiatria adolescenziale, cominciò a osservare comportamenti di isolamento, letargia e assenza di comunicazione in un numero frequenti di giovani, comportamenti che si traducevano in un ritiro sempre più coercitivo nella propria abitazione o, nei casi più gravi, nella propria stanza.

Questo ritiro è stato interpretato come il desiderio da parte di questi giovani di interrompere le comunicazioni non solo sociali, ma anche famigliari: si inverte il giorno con la notte, ci si nasconde allo sguardo altrui, la propria stanza diventa l'unico rifugio in cui ci si sente adatti, accettati.

Comincia così il ritiro, l'autoreclusione, che lentamente diventa totale.
L'assenza di rapporti diretti aumenta la percezione di incapacità e inadeguatezza sociale, alimentando un circolo vizioso di vergogna e ansia da prestazione che non permette di sbloccare la situazione.

Chi entra in Hikikomori rinuncia al contatto sociale entrando in una realtà virtuale ove evitare il contatto diretto con l'altro e dove poter ri-essere, dove poter ricreare la propria identità in un tempo zero, senza doversi confrontare con le regole, le norme, gli sguardi del mondo esterno. Attraverso il computer, essi possono guardare senza essere visti.

I conflitti riscontrabili negli Hikikomori sono solitamente:

  • senso di colpa per la propria inattività;
  • incapacità di uscire alla propria casa, pur desiderandolo;
  • perdita delle relazioni amicali (con qualche eccezione nei casi di frequentazioni di chat room o social network);
  • sentirsi incompresi e non amati.

La situazione famigliare diventa stagnante e squilibrata: solitamente i genitori non riuscendo a persuadere il ragazzo lo assecondano, portandogli il cibo e ciò che gli occorre per la pulizia personale, sperando si tratti di un problema passeggero.

Con il tempo tuttavia, la situazione si aggrava e il ragazzo Hikikomori diventa sempre più incurante della propria salute.
Senza movimento, né contatto con l'aria aperta, disturbi somatici quali aumento ponderale, astenia, insonnia sono i primi che arrivano alla consapevolezza della persona.

Altri sintomi frequentemente associati possono essere:

  • sintomi depressivi;
  • sintomi fobici;
  • dipendenze da sostanze e da internet;
  • comportamenti autolesivi;
  • agiti aggressivi nei confronti dei famigliari;
  • in alcuni casi sintomi psicotici.

Le relazioni con i famigliari diventano violente e spesso ambivalenti, portando a un sovraccarico di stress e senso di impotenza da parte dei genitori o conviventi, che a quel punto decidono di rivolgersi a uno specialista.

Come fare per aiutare una persona in Hikikomori?

Nel caso si tratti di un minorenne, i genitori possono rivolgersi direttamente al Medico di base o ai Servizi Psichiatrici specifici del proprio territorio.
Nel caso di un maggiorenne invece non è possibile intercedere per lui (salvo gravi casi, regolamentati dalla legge 833/1978), si possono tuttavia contattare Centri e Associazioni (pochi in Italia) per avere un consulto.

In ogni caso, la situazione è complessa e le famiglie che si rivolgono ai professionisti dovrebbero essere sin da subito informate sulle difficoltà e resistenze al cambiamento.

Come entrare in relazione con persone che rifiutano persino lo sguardo dei loro famigliari?
L'esperienza giapponese di Terapia con questi pazienti porta a una conclusione: non esiste un intervento risolutivo.

La figura delle rental sisters (ragazze volontarie che attraverso la porta chiusa della stanza del ragazzo cercano di creare le basi per una relazione curativa) portata avanti da volontari di organizzazioni no profit, o i colloqui a distanza con professionisti (attraverso i cellulari o la rete) non sembrano dare risultati efficaci, complice anche il ritardo e il conseguente cristallizzarsi della situazione.

La difficoltà di riconoscere e soprattutto affrontare rapidamente il problema è comprensibile se pensiamo a come il ritiro del ragazzo sia spesso graduale, non necessariamente preceduto da qualche episodio che si possa definire traumatico e spesso inserito in un pattern di comportamenti di isolamento/ribellione che ben conosce chi ha figli adolescenti.

La persona è in preda all'ansia, non sa come comunicare il proprio vissuto e presto arriva la vergogna; vergogna di non essere "attivo", non produttivo, di non essere "sociale" e il ritiro diventa sempre più coatto.
Quando i familiari se ne accorgono di solito inizia un "assedio" nella stanza o, presto, fuori dalla porta della stanza, per cercare di convincerlo d uscire, che non c'è nulla da temere.

Con il tempo l'inutilità di tale assedio comporta un'abitudine: la comunicazione pare interrotta, la porta diventa un mezzo attraverso cui passare cibo, bigliettini, oggetti per la pulizia, doni; creando così una ritualità che, spesso, poco spazio lascia alla speranza che quella porta possa riaprirsi, se non per volontà di chi è recluso.

Ed è in questo poco spazio che può inserirsi tuttavia il lavoro del Professionista. Non solo attraverso la ricerca di un contatto diretto con la persona reclusa, ma anche e soprattutto con chi ora si sta facendo portavoce del suo malessere. Come sa bene chi lavora con le famiglie in cui un membro presenta una patologia psichiatrica, il cambiamento può partire da chiunque e avrà un effetto su tutto il sistema.

Quella porta chiusa che sembra interrompere la comunicazione è in realtà un altro tipo di comunicazione, con nuovi linguaggi, nuovi simboli, "altri" rispetto alle parole.

L'autoreclusione, in quanto sintomo, ha un significato.
Ed è partendo da questo significato, da costruire assieme alla famiglia e non solo con il paziente, che si potrà intervenire rileggendo il comportamento Hikikomori non come rifiuto, ma come cambiamento di una relazione.

Lavorare con le persone che convivono con queste situazioni ha un'importanza fondamentale, per poter dare ascolto alle loro preoccupazioni, alle loro sofferenze, che spesso rimangono taciute, perché tanto è il bisogno di far parlare chi si è chiuso, auto-recluso.

L'incontro con un professionista, con un Altro che permetta alla famiglia di dare un senso, un significato a quello che sta succedendo è spesso un intervento sottovalutato, ma che è in realtà indispensabile per poter raggiungere l'Hikikomori; non solo attraverso i canali tecnologici da lui utilizzati per comunicare "al sicuro" con il mondo, ma anche grazie alle persone che sono a lui più vicine e che sono a lui indispensabili per sopravvivere.

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