Articolo pubblicato il 11 Marzo 2013.
L'articolo "Il timore del giudizio altrui" tratta di: Assertività e Fobia Sociale.
Articolo scritto dalla Dott.ssa Cristina Mencacci.
"Chissà cosa penseranno di me? Che non sono all'altezza... non sono adeguato... non sono interessante... Sarebbe terribile se accadesse!"
Domande di questo tipo assillano la mente di quelle persone che, particolarmente sensibili all'esposizione sociale, vivono le opinioni degli altri come una minaccia per il senso di sé.
Il timore del giudizio degli altri si configura come una forma di disagio, sottile ma pervasiva, che limita le scelte e l'interazione sociale.
Le persone che ne soffrono sono costantemente preoccupate di non soddisfare le aspettative altrui o di non essere all'altezza delle situazioni e, per questo, essere disapprovate, criticate, apparire insignificanti, goffe o sciocche. Alcuni temono maggiormente situazioni in cui devono affrontare una prestazione specifica (come sostenere un esame o parlare in pubblico), mentre in altri il disagio è generalizzato alle relazioni sociali (come iniziare o mantenere la conversazione, conoscere nuove persone, partecipare a feste, esprimere le proprie opinioni, svolgere un'attività mentre si è osservati).
Il riconoscimento da parte degli altri, nelle sue forme di approvazione, apprezzamento, importanza, costituisce un bisogno fondamentale di tutti noi. Tuttavia, è naturale che questi riconoscimenti non possano essere elargiti da chiunque incontriamo, poiché non è possibile avere gli stessi atteggiamenti, interessi e opinioni di ciascuno. Di conseguenza è inverosimile risultare piacevoli ed interessanti a chiunque e, del resto, noi apprezziamo tutti? Questo margine di rischio se per alcuni è ritenuto ovvio e quindi accettato, per altri è fonte di disagio.
Alla base del timore del giudizio altrui vi è la presenza di un atteggiamento interno severo e giudicante, in virtù del quale la persona tende a svalutarsi per presunte manchevolezze. La paura principale è quella di essere rifiutati dagli altri, vissuti come giudici intransigenti, pronti a rilevare e criticare ogni ipotetica imperfezione. Mentre, il giudice più inflessibile è proprio dentro se stessi. È, infatti, la persona che, percependosi inadeguata, estende arbitrariamente l'immagine negativa di sé agli interlocutori, attraverso una forma di "lettura della mente", priva di qualunque riscontro oggettivo.
Nei rapporti interpersonali si delineano due atteggiamenti: il primo rivolto all'esterno "facciata esteriore", con cui la persona si relaziona agli altri; il secondo concentrato sul proprio "mondo interiore", segreto agli occhi degli altri, popolato da dubbi e paure.
La "facciata esteriore"è protesa a soddisfare le aspettative altrui e si concretizza in atteggiamenti compiacenti ed accomodanti, nel controllo delle proprie emozioni e comportamenti, nella reticenza a parlare di sé. Si tratta di persone percepite come cordiali ed amabili, ma riservate e distaccate, con cui è difficile entrare in intimità. La protezione della propria sfera privata ("mondo interiore") pone una distanza emotiva nei confronti degli altri, implicando la sensazione di non essere capiti e considerati. Di conseguenza può insorgere un profondo senso di solitudine, cui si associano altre emozioni negative (delusione, scoraggiamento risentimento rabbia), coltivate silenziosamente nell'esperienza interiore.
Le interazioni sociali vissute con queste modalità diventano estenuanti: il costante automonitoraggio richiede un notevole dispendio di energie e la persona si preclude l'espressione spontanea di sé, negandosi la possibilità arricchire la relazione con il proprio apporto personale.
Coloro che temono il giudizio altrui sottovalutano le proprie risorse e capacità e sopravvalutano quelle degli altri, con cui tendono continuamente a confrontarsi, assegnandosi una posizione d'inferiorità: "tutti sono più interessanti, efficienti, brillanti, disinvolti, intelligenti". Quest'atteggiamento alimenta il divario tra l'immagine di se e quella di ciò che si vorrebbe essere, suscitando scoraggiamento e percezione d'incapacità.
Nella scelta delle amicizie, sono spesso attratte da persone che possiedono caratteristiche opposte, ben inserite socialmente e con facilità di contatto, cui si affidano per interagire e instaurare nuove conoscenze. La presenza di un amico/a, incline ad incoraggiare e supportare, infonde sicurezza e fornisce uno scudo protettivo su cui dirottare l'attenzione degli altri nell'esposizione sociale. L'altro lato della medaglia è il rischio di diventare dipendenti da queste figure di riferimento. Nel momento in cui la relazione termina od è sospesa, per motivi imprescindibili dalla volontà, subentra lo sconforto. La persona si sente disorientata e disarmata, poiché ora dovrà gestire l'ambiente sociale senza lo scudo protettivo. Non sentendosi in grado di procedere da sola, può chiudersi in se stessa mettendo in atto meccanismi d'evitamento, predisponendosi al pericolo dell'isolamento sociale.
Chi teme il giudizio degli altri, quando si accinge a vivere una situazione sociale percepita come "pericolosa", ad esempio andare a una festa, entra inconsapevolmente in una spirale di emozioni e pensieri che condizionano la natura del proprio comportamento. A questo punto si profilano due alternative: sostenere la situazione seppure con disagio, o rinunciare.
1. Partecipare: la trappola dell'attenzione selettiva sul sé. Nel prendere parte alla situazione sociale la persona, già predisposta in uno stato d'animo negativo, mobilita tutta la sua attenzione verso propri i segnali d'imbarazzo (reazioni del corpo, contenuti verbali e non verbali) con l'illusione di poterli controllare.
L'esito finale, non sarà altro che l'aumento della percezione di tali sensazioni. Ciò può realmente compromettere la performance relazionale.
2. Rinunciare: la trappola dell'evitamento.
La paura della performance sociale, se molto intensa, può indurre ad evitare le situazioni temute. Il comportamento di rinuncia allevia temporaneamente il senso di disagio, ma non smentisce le proprie convinzioni riguardo al senso d'incapacità. Quando l'evitamento si protrae nel tempo conduce a sfuggire da altre situazioni affini e restringere progressivamente il perimetro entro cui si sente al sicuro, limitando le opportunità di scelta e di stabilire relazioni.
La paura sperimentata nelle situazioni sociali non si basa su dati di realtà, ma su convinzioni costruite dalla persona. Pertanto il punto nodale, consiste nell'esaminare gli eventi in modo più realistico ed interpretare i segnali degli altri in base a criteri più oggettivi.
Un breve percorso di sostegno psicologico permette di trattare la problematica agendo su più livelli:
L'obiettivo del percorso è quello di rendere la persona libera dai preconcetti coltivati sulla propria immagine e permetterle di relazionarsi con gli altri con serenità.
"La paura di non essere all'altezza, ci fa salire di un gradino".
Proverbio giapponese